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Le Sezioni Unite nel 2002 sul principio di non contestazione (Cass.SS. UU.761/02)
Materia: Sentenze - Fonte: Cassazione - 31.05.2010 Condividi su Facebook |
(sentenza pubblicata a seguito del commento della n. 10285/10, che pare dimenticarsi di questa pronuncia. Da ricordare che nel 2009 è stato novellato l'art. 115 del codice di procedura civile, con l'affermazione espressa del principio di non contestazione) Gli artt. 167, primo comma, e 416, terzo comma, imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione su tali fatti, fanno della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti. In altri termini, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato legislativo, rappresenta, in positivo e di per sé, l'adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto (...) e, quindi, rende inutile provarlo, perché non controverso, * * * Cass. civ. Sez. Unite, 23-01-2002, n. 761 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Nicola MARVULLI - Primo Presidente - Dott. Francesco AMIRANTE - Presidente di sezione - Dott. Alfio FINOCCHIARO - Presidente di sezione - Dott. Giovanni PRESTIPINO - Consigliere - Dott. Paolo VITTORIA - Consigliere - Dott. Alessandro CRISCUOLO - Consigliere - Dott. Roberto PREDEN - Consigliere - Dott. Fabrizio MIANI CANEVARI - Consigliere - Dott. Stefanomaria EVANGELISTA - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: *****, domiciliato in ROMA, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato *****, giusta delega a margine del ricorso; - ricorrente - contro ***** S.R.L.; - intimata - e sul 2^ ricorso n^ 09024/98 proposto da: ***** S.R.L., in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, *****, presso lo studio dell'avvocato *****, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato *****, giusta delega a margine del controricorso; - controricorrente e ricorrente incidentale - contro *****; - intimato - avverso la sentenza n. 1000/97 del Tribunale di UDINE, depositata il 14/11/97; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/11/01 dal Consigliere Dott. Stefanomaria EVANGELISTA; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. Domenico IANNELLI che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso principale; rinvio sezione lavoro per il resto. Svolgimento del processo Il sig. *****: conveniva in giudizio davanti al pretore del lavoro di Udine, Sezione distaccata di Cividale del Friuli, la S.r.l. ***** e, premesso di avere curato per quest'ultima la promozione di affari in esecuzione di un contratto di imprecisata natura, lamentava di non avere percepito interamente il compenso pattuito. Chiedeva, pertanto, la condanna della convenuta al pagamento della complessiva somma di L. 28.048.035, a titolo di differenze retributive, indennità di preavviso e rimborso spese, come da analitico conteggio allegato al ricorso. La convenuta, costituitasi in giudizio tardivamente, sosteneva l'infondatezza delle pretese avversarie, negava di avere pattuito retribuzioni di importo superiore a quello effettivamente versato e deduceva di avere stipulato col ***** un contratto di agenzia per un periodo di prova di nove mesi, allo scadere dei quali era stata rifiutata la prosecuzione del rapporto, a causa della scarsa produttività dell'agente, resosi anche responsabile di talune mancanze. Il pretore accoglieva la domanda. A seguito di appello della convenuta, il Tribunale di Udine, con sentenza depositata in cancelleria il 14 novembre 1997, parzialmente riformando le statuizioni del primo giudice, limitava la condanna della società datrice di lavoro al pagamento della complessiva somma di L. 10.500.000, oltre accessori. Riteneva, infatti, che l'attore aveva prestato attività di procacciatore di affari dal 1° novembre 1993 al 30 settembre 1994; che mancava adeguata prova della pattuizione di un compenso maggiore di quello, pari a lire tremilioni mensili, effettivamente corrispostogli per otto mensilità; che, dunque, a titolo di retribuzione erano ancora dovute al ricorrente, complessivamente, per le residue tre mensilità, L. 9.000.000. Né a giustificare ulteriori compensi forfetari di L. 500.000 per i mesi di giugno e dicembre, poteva rilevare la mancanza di specifiche contestazioni, da parte del ricorrente, del conteggio allegato al ricorso. Al riguardo il Tribunale sottolineava, in particolare, che la ditta resistente aveva, con la memoria difensiva, negato di dovere al ricorrente alcunché, oltre quanto già corrispostogli, sicché la stessa non aveva l'ulteriore onere di contestare specificamente il conteggio, relativamente a differenze retributive che erano contestate in radice. Non rilevava, poi, il non tempestivo deposito della suddetta memoria, non essendo sanzionata da decadenza l'inosservanza dell'onere di prendere posizione precisa in ordine alla domanda. Quanto all'indennità di preavviso il giudice di appello confermava nell'"an" la pronuncia di primo grado, in relazione all'inadempimento della ditta Petri, consistente nel mancato pagamento della retribuzione degli ultimi tre mesi del rapporto, ma riduceva il quantum a L. 1.500.000, corrispondente a mezza mensilità, sulla base di una determinazione equitativa del preavviso, a norma dell'art. 2118 cod. civ., non risultando l'applicabilità di contratti collettivi o la sussistenza di usi. Per la cassazione di questa sentenza ricorrevano il lavoratore, in via principale e sulla base di tre motivi, nonché la società datrice di lavoro, in via incidentale e sulla base di due motivi. Il primo motivo del ricorso principale denunciava la violazione dell'art. 416 cod. proc. civ., in relazione all'art. 116 c.p.c., unitamente a travisamento dei fatti ed illogicità della motivazione. In particolare, il ricorrente lamentava che il giudice di appello avesse escluso l'onere della convenuta di contestare specificamente il conteggio da lui elaborato ed allegato al ricorso introduttivo del giudizio di merito. Sottolineava il contrasto di tale esclusione con le citate norme, osservando che la convenuta, pur avendo affermato l'esistenza di un contratto a termine di nove mesi e la pattuizione di un compenso del tutto coincidente con quello (24.000.000 di lire) effettivamente versato, non aveva al riguardo dedotto alcuna prova. Con ordinanza del 14 aprile 2000, la Sezione Lavoro della Corte, rilevato che il teste esposto motivo di ricorso implicava l'esame della questione se sussista, a carico della parte che contesti globalmente il credito vantato nei suoi confronti e ponga, quindi, in discussione lo stesso "an debeatur", l'onere di contestare specificamente anche il "quantum" ed i relativi conteggi, elaborati della controparte, e che su tale questione la stessa sezione aveva espresso orientamenti giurisprudenziali contrastanti, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. Il Primo Presidente ha provvedeva in conformità. Motivi della decisione Riuniti i ricorsi ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ., siccome proposti contro la medesima sentenza, ed esaminando, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 142 disp. att. c.p.c., il primo motivo del ricorso principale, che implica la risoluzione della questione oggetto del segnalato contrasto di giurisprudenza, le Sezioni unite osservano quanto segue. Secondo un primo orientamento, di cui è espressione la sentenza della Sezione Lavoro 30 dicembre 1994, n. 11318, nel processo del lavoro un onere di specifica contestazione dei conteggi è configurabile solo laddove non sia insorta controversia sull'"an debeatur", e non già nelle ipotesi in cui il credito oggetto della domanda sia globalmente contestato, atteso che in tal caso non sarebbe logico porre a carico del (presunto) debitore la revisione critica dell'elaborazione contabile di una somma la cui spettanza egli ha inteso negare in radice. In senso sostanzialmente analogo si sono espresse la sentenza 12 giugno 1995, n. 6609 (ove, in particolare, si valorizza il rilievo per cui, nei confronti del convenuto che neghi in radice l'esistenza del credito avversario, non opera alcuna preclusione della possibilità di porre in essere nell'ulteriore corso del processo - e tanto più a seguito di sfavorevole decisione resa in primo grado - un atteggiamento difensivo diverso, mirante ad ottenere in via principale oppure in subordine il semplice ridimensionamento della pretesa avversaria) e la sentenza 29 marzo 1995, n. 3758 (la quale ha altresì osservato che l'irrilevanza della non contestazione specifica del "quantum", quando sia contestato in radice il diritto "ex adverso" vantato, è a fortiori argomentabile dalla considerazione che, anche in assenza di tale ultima eventualità, la mancata contestazione dei conteggi non vale di per sé ad accreditarli automaticamente di affidabilità e precisione, ma può soltanto, a seconda delle circostanze, costituire elemento integratore del convincimento del giudice). Orientamento di segno opposto è stato, invece, espresso dalla sentenza 7 luglio 1999, n. 7089, sulla base della considerazione che la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l'affermazione dell'erroneità della relativa quantificazione e che, d'altra parte, la contestazione dell'esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, sia pure subordinata, in relazione alle caratteristiche generali del rito del lavoro, fondato su un sistema di preclusioni diretto a consentire all'attore di conseguire rapidamente la pronuncia riguardo al bene della vita reclamato. Quanto agli effetti della non contestazione dei conteggi, la stessa sentenza precisa, tuttavia, che l'inosservanza del relativo onere costituisce elemento valutabile dal giudice in sede di verifica del fondamento della domanda. A quest'ultima prospettiva, che valorizza il principio del libero convincimento del giudice può ricollegarsi il principio desumibile da Cass., 6 luglio 1998, n. 6568, la quale considera il difetto di contestazione dei conteggi come un dato rilevante nel quadro della più ampia valutazione, ai sensi dell'art. 116 cod. proc. civ., del complessivo comportamento processuale della parte. Una più recente sentenza (8 aprile 2000, n. 4482) nel confermare la tesi per cui la contestazione sull'"an" non esclude la necessità di specifica contestazione anche del "quantum", perviene a più drastiche conclusioni circa gli effetti della mancanza di quest'ultima. Argomentando, infatti, dalle peculiarità del rito speciale, ed in particolare dall'obbligo del convenuto di prendere posizione precisa, non limitata ad una generica contestazione, sui fatti allegati dall'attore, giunge ad affermare la definitiva incontestabilità di tutte le situazioni di fatto in ordine alle quali non si siano manifestate divergenze fra le parti nei modi e nei termini imposti dalla rete di preclusioni e decadenze, che, in larga misura, impronta le menzionate peculiarità: donde la conseguenza che non potrebbero essere sollevate nel giudizio d'appello contestazioni riguardo a conteggi che debbano ritenersi incontestati in primo grado. Nell'impostazione generale, la sentenza appena citata si ricollega, peraltro, alla tesi già enunciata, sempre a proposito di conteggi, da Cass., 24 novembre 1998 n. 11919, la quale, dato atto della generale tendenza, propria del rito del lavoro, a favorire la "determinazione del concreto", ne aveva ravvisato i corollari nella cristallizzazione di tutte le situazioni di fatto allegate e non tempestivamente e ritualmente contestate, nella possibilità per il giudice di disporre, con ordinanza ai sensi dell'art. 423 cod. proc. civ., il pagamento delle somme non contestate e nell'inammissibilità in sede di gravame di qualunque doglianza in ordine ai conteggi relativi a spettanze lavorative, una volta che detti conteggi siano stati accettati in primo grado. Sostanzialmente in linea con tale impostazione sono anche le sentenze 4 aprile 2000, n. 4116 e 29 maggio 2000, n. 7103. In conclusione, sia pure schematicamente, possono identificarsi tre tesi sulla questione oggetto del contrasto: a) irrilevanza della non contestazione dei conteggi, in caso di contestazione sull'"an"; b) rilevanza ai fini della decisione - quali dati pacifici tra le parti - di conteggi non contestati, anche in caso di contestazione della domanda in punto di "an", col corollario dell'inammissibilità di una contestazione tardiva (specificamente, in appello) dei medesimi conteggi; c) rilevanza della non contestazione dei conteggi quale elemento valutabile dal giudice ai fini della decisione (ai sensi dell'art. 116, secondo comma, c.p.c.), anche in caso di contestazione dell'"an debeatur". È avviso delle Sezioni Unite che nessuna delle tre proposizioni possa essere condivisa nella sua assolutezza, anche se ciascuna presenta elementi di validità. In primo luogo è da osservare che l'esame delle conseguenze del difetto di contestazione non può essere proficuamente condotto, ove ci si limiti a riferire genericamente questo comportamento processuale della parte ai cosiddetti conteggi o, in genere, alle operazioni di determinazione del "quantum". Queste operazioni, infatti, hanno un contenuto variabile e complesso, frequentemente comprensivo, più o meno esplicitamente, sia di una maggiore specificazione dei fatti costitutivi e del "petitum", sia di una elaborazione contabile che può essere di ampiezza e complessità assai differenziata, non solo in relazione al numero dei dati coinvolti, ma anche e principalmente per effetto del contenuto di regole giuridiche, legali o contrattuali, alle quali la detta elaborazione dà concreta applicazione. La non contestazione rileva diversamente a seconda dell'aspetto dell'elaborazione contabile cui risulta concretamente riferibile. Se concerne l'interpretazione data alla disciplina legale o contrattuale della quantificazione, essa si colloca in un ambito di sostanziale irrilevanza, appartenendo al potere - dovere del giudice la cognizione di tale disciplina, che non può, dunque, risultare condizionata dalle prospettazioni difensive e dai comportamenti processuali delle parti. Per avere rilevanza, la non contestazione deve, fondamentalmente, riguardare i fatti da accertare nel processo e non la determinazione della loro dimensione giuridica. Con precipuo riguardo al rito del lavoro ne è convincente dimostrazione positiva l'art. 416 cod. proc. civ., che, appunto contemplando il comportamento del convenuto che intenda resistere alle pretese avversarie, contestandole in tutto o in parte, lo configura come onere di "prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione" e lo riferisce espressamente ai "fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda". L'osservazione trova conferma, per quanto riguarda il rito ordinario, nel primo comma dell'art. 167, come novellato dall'art. 11 della legge 26 novembre 1990, n. 353, ivi stabilendosi che "nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda". Né un'autonoma rilevanza del difetto di contestazione del conteggio, in sé considerato, può ipotizzarsi argomentando dall'art. 423, primo comma, cod. proc. civ., che consente al giudice, su istanza di parte, di disporre con ordinanza esecutiva, in ogni stato del giudizio, il pagamento delle "somme non contestate". Invero, come è già stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte (cfr. sent. 4 ottobre 1984, n. 4941) il presupposto condizionante del provvedimento in questione, sebbene letteralmente riferito alle "somme" non è costituito dal mero difetto di contestazione di una risultanza contabile, ma da una impostazione della difesa del convenuto incompatibile con la negazione della sussistenza (dei fatti costitutivi) del credito quantitativamente espresso in tale risultanza. Considerata, dunque, la non contestazione come comportamento processualmente rilevante se riferito a fatti e non all'applicazione di regole giuridiche, è agevole osservare che, la contestazione sull'"an" non è, di per sé, tale da assorbire e rendere superflua qualsiasi contestazione sul "quantum", potendo le operazioni di quantificazione del credito in contestazione essere affidate all'allegazione di fatti non incompatibili con quelli investiti negativamente dalle difese svolte in punto di sussistenza del credito stesso. Ad esempio, il convenuto che si difenda dalla pretesa di pagamento di compensi per lavoro straordinario, ove si limiti a negare la natura subordinata del rapporto di lavoro, non esclude, con questa sola difesa, necessariamente anche la sussistenza di prestazioni lavorative della durata giornaliera indicata dalla controparte ai fini del conteggio analitico delle sue spettanze; mentre tale esclusione non sarebbe negabile come conseguenza della negazione assoluta di qualsiasi rapporto. In sostanza se le contestazioni sui fatti costitutivi del diritto in contesa implichino anche quelle dei fatti allegati ai fini della quantificazione della pretesa è questione non suscettibile di una risposta astratta in un senso o nell'altro, ma da risolvere caso per caso in base al criterio per cui questa seconda categoria di fatti non è investita dalla contestazione sull'"an", quante volte si tratti di fatti non incompatibili con la denegata sussistenza del credito. In questi casi, la contestazione sull'"an" non preclude l'applicabilità della regola che impone al convenuto l'onere di prendere posizione sui fatti allegati "ex adverso", con la conseguenza che il comportamento omissivo si connota di idoneità ad essere apprezzato dal giudice ai fini dell'identificazione dell'oggetto della lite o del tema probatorio. Altro problema è, poi, quale debba essere questo apprezzamento, ovvero quali siano le conseguenze della non contestazione. Orbene, fermo restando il comune presupposto della rilevanza limitata ai casi di non contestazione di fatti, occorre nondimeno osservare che tali conseguenze variano in relazione al tipo dei fatti di cui trattasi, come suggerisce il testuale tenore delle norme, appena citate, istitutive dell'onere suddetto, lette alla luce di rilievi sistematici sulla struttura del processo in cui esse si inseriscono. Invero, non tutti i fatti processualmente rilevanti rinvengono in questo solo denominatore comune anche omogeneità di natura. Occorre, invece, distinguere i fatti costitutivi del diritto, dalle circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi: per riprendere l'esemplificazione di cui sopra, rispetto alla domanda di condanna al pagamento di compensi per lavoro straordinario, fatto costitutivo del diritto è l'avvenuta prestazione oltre i limiti dell'orario normale; circostanza di mero rilievo istruttorio è il comportamento del lavoratore consistente nel compiere il percorso casa - luogo di lavoro e viceversa in ore astrattamente coerenti con l'anzidetta prosecuzione della prestazione lavorativa. Posta, dunque, tale distinzione, appare agevole concludere che nei "fatti posti dall'attore a fondamento della domanda", dei quali appunto è menzione nelle dette norme, è palesemente riconoscibile il connotato della prima categoria di fatti, potendosi della funzione fondante rispetto alla pretesa accreditare esclusivamente i fatti giuridici costitutivi della medesima. Gli artt. 167, primo comma, e 416, terzo comma, imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione su tali fatti, fanno della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti. In altri termini, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato legislativo, rappresenta, in positivo e di per sé, l'adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto (onde, nell'ambito di operatività di un onere siffatto si rende sostanzialmente inavvertibile, ai fini dell'identificazione dei fatti "pacifici", la tradizionale differenza - per la quale cfr. da ultima, Cass., 18 luglio 2000, n. 9424 e, fra le altre, Cass., 23 maggio 1995, n. 5643; Id., 2 giugno 1994, n. 5359; Id., 20 maggio 1993, n. 5733; Id., 5 dicembre 1992, n. 12947; Id. 6 marzo 1987, n. 2386 - fra ammissione implicita e non contestazione) e, quindi, rende inutile provarlo, perché non controverso, come è già stato posto in luce da altro orientamento espresso dalla Corte sul punto, con sentenza 2 marzo 1995, n. 2415. Tanto, poi, riesce ad accreditare la non contestazione di tendenziale irreversibilità (nei sensi di cui appresso e salve sempre, ovviamente, le condizioni per provvedimenti di rimessione in termini, ai fini dell'ammissibilità di contestazioni rimesse ad atti successivi a quelli introduttivi del giudizio): e ciò in piena coerenza con la struttura del processo che, nel rito del lavoro, è finalizzata a far sì che all'udienza di discussione la causa giunga delineata in modo compiuto, quanto ad oggetto e ad esigenze istruttorie, secondo un modello non estraneo, ormai, come nota autorevole dottrina, neanche al rito ordinario, improntato, dopo la riforma del 1990, a finalità di chiarezza e semplificazione rese palesi dal concatenamento fra la fase diretta alla chiarificazione della posizione delle parti e la fase della formulazione delle richieste istruttorie. Per i fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria, non è invece, formulabile identica conclusione. Essi, come si è detto, hanno una rilevanza che si esaurisce sul piano istruttorio, nel senso che, ove provati, il giudice può, in base ad essi, formare il suo convincimento circa l'esistenza dei fatti costitutivi del diritto. Per questa stessa ragione, essi non sono contemplati dalle norme in questione e, anche in processi di tipo dispositivo, si collocano in un'area che non è assegnabile all'esclusiva disponibilità delle parti. In quest'area, pertanto, la non contestazione viene restituita alla più generica categoria dei comportamenti non vincolanti per il giudice, ma apprezzabili liberamente come semplici argomenti di prova, ai fini del giudizio sulla sussistenza del fatto di cui trattasi. Sul piano sistematico, del resto, è da notare che, in presenza di situazioni giuridiche sostanziali caratterizzate dal requisito della disponibilità, assoluta o relativa, il processo si atteggia secondo il principio dispositivo, ossia secondo un modello che postala, come tratti qualificanti indefettibili, l'affidamento esclusivo alla parte del potere di proporre la domanda e di allegare i fatti posti a fondamento della medesima. Il potere di allegazione è, infatti, in questi limiti, riflesso processuale dell'autonomia sostanziale delle parti, la quale resterebbe vulnerata, ove soggetta all'iniziativa officiosa; la disponibilità della situazione giuridica sostanziale si atteggia, in sede giurisdizionale, come potere delle parti di determinare l'oggetto della lite. Per contro, la dimensione processuale dell'autonomia delle parti non comporta necessariamente la negazione dell'iniziativa del giudice nell'identificazione dei temi dei mezzi di prova, poiché quest'attività non è qualificabile in termini di disposizione della situazione sostanziale ed opera sul diverso piano della formazione del convincimento del giudice stesso ai fini degli accertamenti richiestigli. Dei che si ha riprova nella non indifferente disponibilità della prova concessa al giudice non solo nel rito ordinario (artt. 61 e 197, art. 116, secondo comma, art. 118, primo e secondo comma, artt. 213, 240, 241, 253, 257, 317), ma anche e principalmente nel rito del lavoro, con riguardo al quale l'art. 421, secondo comma, prevede che il giudice possa "disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile", pur non essendo dubitabile, per pacifico principio giurisprudenziale, condiviso dalla pressoché unanime dottrina, che col detto rito speciale il legislatore non ha inteso dare attuazione al principio inquisitorio. Ciò spiega il diverso rilievo della non contestazione, a seconda che riguardi fatti delle due diverse specie sopra indicate. Resta da rilevare che la non contestazione dell'elaborazione contabile, sotto il profilo dell'esatta osservanza delle regole tecnico-matematiche, risulta, analogamente a quella dei fatti secondari, valutabile non come manifestazione del potere di disposizione della situazione sostanziale, ma come momento del controllo di inferenza, al lume della disciplina scientifica della materia, dei dati da esaminare ai fini del contenuto della decisione, sicché essa stessa, al pari della seconda si colloca nell'area di libero apprezzamento ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ. In considerazione di tutto quanto precede l'esame della questione concernente il rilievo da attribuire al difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall'attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, relativamente alla quale siano intervenute soltanto contestazioni sull'esistenza del credito stesso, va compiuto nel quadro dei seguenti principi. Il menzionato difetto di contestazione: 1) può avere rilievo solo quando: A) si riferisca a fatti e non semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi; l'applicazione di queste regole, infatti, si colloca pienamente ed interamente nell'ambito dell'esercizio dei poteri del giudice, tenuto alle necessarie valutazioni, anche in difetto di specifiche contestazioni delle parti; B) e sempre che si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull'"an"; 2) rileva diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l'esistenza di codesti fatti: A) nella prima ipotesi il comportamento della parte costituisce manifestazione dell'autonomia riconoscibile alla parte in un processo dominato dal principio dispositivo, con la conseguenza che il fatto non contestato non ha bisogno di prova perché le parti ne hanno disposto vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza; si tutta, quindi, di un ambito di incidenza estraneo alla determinazione del "thema probandum" ed inerente soltanto alla determinazione del tema di fatto che è a base della controversia; B) nella seconda ipotesi (cui può assimilarsi anche quella di difetto di contestazione in ordine all'applicazione delle regole tecnico-contabili), nonostante la mancanza di controversia sulla specifica circostanza, si è fuori del dominio esclusivo dell'autonomia delle parti ed è pur sempre necessario un controllo probatorio, ai fini del quale il comportamento tenuto dalle parti può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., non per escludere che, in ordine all'esistenza di quella circostanza egli debba formarsi un convincimento; 3) si caratterizza, inoltre, per un diverso grado di stabilità a seconda che investa fatti dell'una o dell'altra categoria, perché: A) se concerne fatti costitutivi del diritto, si coordina al potere di allegazione dei medesimi e partecipa della sua natura, sicché simmetricamente soggiace agli stessi limiti apprestati per tale potere; in altre parole, considerato che l'identificazione del tema decisionale dipende in pari misura dall'allegazione e dall'estensione delle relative contestazioni, risulterebbe intrinsecamente contraddittorio ritenere che un sistema di preclusioni in ordine alla modificabilità di un tema siffatto operi poi diversamente rispetto all'uno o all'altro dei fattori della detta identificazione; e, pertanto: Aa) il limite della contestabilità dei fatti costitutivi originariamente incontestati si identifica, nel rito del lavoro, con quello previsto dall'art. 420, primo comma, cod. proc. civ. per la modificazione di "domande eccezioni e conclusioni già formulate"; Ab) trattasi di preclusione argomentabile dal sistema e non di decadenza ex art. 416 cod. proc. civ., norma che commina tale sanzione per le sole domande riconvenzionali e per le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio e proposte oltre il limite temporale assegnato alla memoria difensiva; Ac) ai fini della tempestività della contestazione, non rileva la tardività della costituzione in giudizio, potendo un problema di preclusioni alla contestabilità porsi soltanto nel presupposto (non configurabile nel solo fatto della contumacia: Cass., 28 giugno 1984, n. 3796; Id., 4 dicembre 1996, n. 7186; Id., 28 giugno 1984, n. 3796) della rilevanza di un originario atteggiamento di non contestazione; B) se investe circostanze di rilievo istruttorio, trova, invece, più ampia applicazione il principio della provvisorietà, ossia della revocabilità della non contestazione, versandosi, come si è detto, in un ambito nel quale il controllo probatorio è, in ogni caso, necessario e l'atteggiamento difensivo del convenuto ed i suoi eventuali mutamenti rilevano solo come "argomenti", da valutarsi, nel concorso delle ulteriori risultanze istruttorie, ai fini della formazione del convincimento del giudice; né ciò contrasta con la struttura propria del rito speciale in quanto: Ba) una tardiva contestazione dei fatti probatori non comporta alcuna alterazione del sistema difensivo che l'attore deve, in ogni caso, avere approntato secondo il principio di eventualità (vale a dire formulando - già nell'atto introduttivo del giudizio, sotto pena di preclusione - le proprie istanze istruttorie con la completezza che si imporrebbe in presenza di un'integrale contestazione ad opera della controparte) e che, quindi, già appartiene potenzialmente al tema istruttorio della causa; Bb) le sopravvenute contestazioni che implicano modificazioni del tema istruttorio, non essendo colpite da specifica sanzione di decadenza ex art, 416 cod. proc. civ., possono essere assoggettate ad un sistema di preclusioni solo nella misura in cui procedono da modificazioni dell'oggetto della controversia, le quali, come si è detto, si correlano al potere di allegazione ed ai limiti che lo governano; Bc) è caratteristica precipua del detto rito speciale il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della "verità materiale", di guisa che, quando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova ma ha il potere - dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti (v., fra le numerose altre conformi, Cass., 6 marzo 2001, n. 3228; Id., 20 maggio 2000, n. 6592; Id., 3 ottobre 1998, n. 9817; Id., 12 febbraio 1997, n. 1304; Id., S.U., 13 gennaio 1997, n. 262). Nei limiti delle conclusioni che precedono, ritengono le Sezioni Unite di dovere superare l'orientamento giurisprudenziale (affidato all'insufficiente rilievo che la contestazione è atteggiamento difensivo riconducibile al novero delle mere difese) affermativo dell'indiscriminata provvisorietà della non contestazione e della persistente sua revocabilità in ogni fase del giudizio di merito (se ne veda la prospettazione fattane, da ultima, in Cass., 12 agosto 2000, n. 10758, nonché, precedentemente, in Cass., 20 aprile 1990, n. 3278; Id., 17 novembre 1993, n. 11364). Né con tali conclusioni contrastano quelle espresse dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza 8 gennaio 1997, n. 89, la quale, sebbene si collochi in apparenza nella logica del riferito orientamento tradizionale, in realtà, non affronta in alcun modo il tema delle conseguenze della non contestazione di determinati fatti, mentre si limita ad affermare la non soggezione di una contestazione sopravvenuta al divieto di "jus novorum" in appello, sancito dall'art. 437 cod. proc. civ., all'esclusivo fine di precisare che il difetto di contestazione in ordine al "quantum" del credito oggetto del giudizio, non meno della tardività della contestazione al riguardo, è sostanzialmente irrilevante, incombendo "a qualsiasi creditore provare non soltanto l''an debeatur', ma anche il 'quantum'" (così, testualmente, in motivazione, la sentenza citata), in un senso, dunque, non dissimile da quello sopra esposto, circa l'ininfluenza della non contestazione, ove riferita al solo dato contabile, in sé considerato. In applicazione di questi principi è agevole rilevare l'infondatezza del primo motivo del ricorso principale. In primo luogo, il giudice d'appello ha, infatti, correttamente (alla stregua del principio enunciato "supra", "sub" lettere Ab) ed Ac) negato che la tardività della costituzione della convenuta potesse avere rilievo ai fini dell'ammissibilità delle contestazioni svolte, con la memoria difensiva, relativamente all'esistenza del credito vantato dalla controparte. Ha, poi, considerato che queste contestazioni, compendiandosi nell'assunto dell'avvenuta corresponsione al lavoratore di tutto quanto gli spettava in dipendenza del rapporto di lavoro, fossero di contenuto tale da investire necessariamente ogni allegazione dell'attore in ordine alle pretese differenze retributive, risultandone, per l'effetto, esclusa ogni necessità di più specifica contestazione delle voci del conteggio prodotto unitamente al ricorso introduttivo del giudizio di merito. Si tratta di un rilievo, a sua volta, corretto, poiché, quando sia controversa, come nella specie, l'entità della retribuzione pattuita, l'affermazione del datore di lavoro di avere versato un compenso corrispondente al dovuto (ovvero, ed è lo stesso, pari agli importi contrattualmente stabiliti: ed in questi termini, del resto, lo stesso ricorrente riferisce le deduzioni difensive del resistente), è assolutamente inconciliabile con l'allegazione (risultante, dallo specifico conteggio elaborato dall'attore per la quantificazione del credito vantato per differenze retributive) di una diversa e maggiore entità dell'oggetto della suddetta pattuizione: deduzione e contestazione, in effetti, cadono sul medesimo fatto costitutivo della pretesa e ne forniscono diverse ed incompatibili prospettazioni, implicando contrapposte interpretazioni delle clausole contrattuali, con la conseguenza di onerare l'attore della prova dell'esistenza di pattuizioni idonee a consentire la quantificazione della retribuzione nella misura rivendicata. Nel caso di specie, pertanto, il diniego di rilevanza della non contestazione specifica del conteggio è da ritenere non solo sorretto da coerente e sufficiente motivazione, ma anche conforme a diritto, siccome ricognitivo del difetto della condizione - indicata sopra, "sub" 1)B) - alla quale risulta subordinata la possibilità di tenere conto di una siffatta forma di non contestazione. L'esaminato motivo di ricorso deve, pertanto essere disatteso. Esaurito in tali sensi lo scrutinio della questione di competenza delle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 142 disp. att. c.p.c., l'esame dei residui motivi del ricorso principale e di quelli del ricorso incidentale ad esso riunito compete, "ratione materiae", ex art. 19 della legge 11 agosto 1973, n. 533, alla Sezione Lavoro, cui vanno, pertanto, restituiti gli atti per l'ulteriore corso del giudizio e per il regolamento delle spese processuali. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il primo motivo del ricorso principale e rimette gli atti alla Sezione Lavoro per l'ulteriore corso del giudizio di Cassazione. Così deciso in Roma il 9 novembre 2001 DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 23 GENNAIO 2002